martedì 8 luglio 2008

L'ultimo no -3

Tornai a casa con un senso di vuoto e di apatia ancora più forte di quello che da ormai molto tempo mi accompagnava.
Fui, se possibile, meno loquace del solito; Laura non mi chiese nulla del lavoro, né io le raccontai quello che era accaduto.
Così a prevalere fu il silenzio, interrotto solo da qualche frase scambiata senza troppa convinzione.
Dopo aver cercato invano qualcosa alla tv, Laura mi disse che andava a dormire; si sarebbe dovuta svegliare presto per andare a casa di una sua collega, dovevano lavorare ad un’attività in scadenza.
Io, invece, non avevo nessuna voglia di andare a letto; ormai avevo imparato a sentire le reazioni del mio corpo alle varie situazioni e la reazione a quella giornata sarebbe stata l’insonnia.
Presi un libro e iniziai a leggerlo senza molto interesse e così dopo poche pagine lo riposi.
Alla fine trovai un vecchio film in tv e lo guardai tutto; guardai poi uno dei telefilm che di notte ripropongono per rimpinzare il palinsesto. Praticamente stremato e sicuro di dormire andai a letto quasi all’alba.
Nonostante ciò non fu facile addormentarsi.
Quando suonò la sveglia di Laura già da qualche minuto ero sveglio; tuttavia richiusi gli occhi, sia perché non mi andava di parlare sia perché volevo continuare a godere del senso di protezione che sempre le coperte mi trasmettono quando mi sento in difficoltà.
Fuori pioveva e il rumore della pioggia era l’unico che riuscivo a sentire, insieme a quello del mio respiro.
Non appena Laura richiuse la porta uscendo, mi alzai. Non avevo voglia di andare a lavoro, in realtà non avevo voglia di vedere nessuno e l’unica cosa che riusciva a darmi un leggero senso di sollievo era l’dea di restarmene a casa da solo. Chiamai in ufficio e avvertii che avevo un impegno, ci saremmo rivisti il giorno dopo.
Iniziai a vagare per la casa; presi di nuovo il libro della sera precedente e di nuovo lo riposi quasi subito, accesi la radio per spegnerla dopo pochi minuti, cercai di guardare la tv ma non ci riuscii.
Alla fine automaticamente, di impulso, feci un gesto che facevo sempre da piccolo: presi una sedia, aprii la tenda della porta finestra della camera da letto e mi sedetti a ridosso dei vetri, ad osservare la pioggia che cadeva e la vita che scorreva in strada.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a non pensare a quanto accaduto in ufficio, soprattutto non riuscivo a non pensare a me, a quanto mi stava accadendo, a come mi sentivo.
Ad un certo punto lasciai correre i miei pensieri, decisi di non trattenerli più e di lasciarli liberi di presentarsi senza essere respinti.
Fu una sorta di liberazione sensoriale, come se nel tentativo di non pensare a niente, di bloccare ogni riflessione avessi ovattato l’udito, offuscato la vista, reso l’olfatto insensibile ad ogni odore.
Sono un mediocre irresponsabile, fu la prima cosa che mi venne in mente.
Questo pensiero lo ascoltavo con le mie orecchie, lo vedevo davanti ai miei occhi, come se si trattasse di una scritta sui vetri attraverso i quali contemplavo la pioggia.
Fu una valanga, una reazione a catena; ogni pensiero aveva una consistenza fisica, una dimensione vera e propria.
Ero un irresponsabile e un mediocre, e lo ero da molto; avevo superato tutte le incertezze dell’adolescenza rifugiandomi in un consapevole mediocrità e in una irresponsabilità assoluta, nel senso di uno sforzo compiuto per evitare ogni decisione e ogni scelta che comportasse un’assunzione chiara di responsabilità nella vita. All’università, non era forse una forma di irresponsabilità prendere un voto alto sempre, quando lo studio non aveva poi molta importanza per me; meglio superare brillantemente l’esame che assumersi la responsabilità di una bocciatura o di un brutto voto per essermi dedicato ad altro.
E non era una forma di irresponsabilità aver accettato il primo lavoro decente che mi avevano proposto, senza pensare di rifiutarlo perché era lontano anni luce da quello che avrei voluto fare.
E come definire, se non irresponsabili, i discorsi che avevo fatto a Laura quando lei aveva accennato ad un figlio: le avevo detto che volevo aspettare, che non eravamo ancora pronti e altro ancora, tutto per non dire responsabilmente che un figlio lo volevo anche io ma avevo paura di assumermi quella responsabilità.
Sentivo un male quasi fisico nel ricordare tutto ciò, nel ripercorrere le tappe di un’esistenza vuota e consacrata alla mediocrità.
Osservavo la pioggia cadere forte e non sentivo altro che i miei pensieri.
Mi accorsi che era ora di pranzo ma non avevo fame, soprattutto non volevo zittire la mia mente per dover fare altro.
Ad un certo punto suonò il telefono; era Laura, mi avvertiva che essendo già le cinque e non avendo finito sarebbe rimasta a dormire dalla sua collega.
Se volevo, nel frigo c’era del pollo, l’insalata e ...insomma avevo di che nutrirmi.
Evidentemente per lei ero solo un vegetale da alimentare, nient’altro.
Come biasimarla!
Fuori ormai era buio e alla finestra non riuscivo più a vedere la pioggia che ancora cadeva.
Allora decisi di uscire e sentire addosso la pioggia che mia aveva accompagnato tutta la giornata.
Passai la serata in un pub, senza fare nient’altro che osservare avidamente la vita che mi scorreva intorno; quando tornai a casa era notte fonda e, anche grazie alla birra che avevo bevuto, non impiegai molto ad addormentarmi.

Nessun commento: